Natale 2023
L’antiNatale di Adalberto Maria Donati
di Paolo Morganti
Ho sempre odiato le festività. Tutte le festività, intendo, ma il Natale le batte alla grande.
Dicendo questo non intendo addentrarmi nell’aspetto squisitamente religioso, quindi non gridate all’eretico e non mandatemi anatemi o maledizioni di qualche genere.
Con la mia affermazione mi riferisco semplicemente all’uso commerciale che si fa di questo giorno.
Odio l’ipocrisia e odio il falso perbenismo, fare finta di essere buoni e disponibili con il resto dell’umanità una tantum non mi aggrada affatto.
Ma guardatevi, per Dio!
Tutti ad attaccare palle in ogni angolo possibile della casa, quando il vostro sport preferito, nel resto dell’anno, è quello di romperle, le palle.
E vogliamo parlare delle montagne di cibo sprecato, di quella vostra corsa bulimica che in questo periodo dell’anno vi porta a mangiare e a bere fino a scoppiare?
Salvo poi lamentarvi perché non entrate nelle mutande e andare compulsivamente a guardare facebook per vedere come riciclare il cibo avanzato.
Credetemi, a dirvelo è uno che è goloso per natura e adora mangiare, ma a tutto c’è un limite.
A parte questo, comunque, per qualche strano motivo a ogni Natale capita sempre qualcosa che mi inquieta.
Non ci credete?
Proviamo a riandare per un attimo con la memoria al mio Natale del 2022.
Giusto un anno fa.
Poi ditemi poi se non ho ragione a inquietarmi…
Era la vigilia di Natale.
Io e Pansé – la mia fidanzata – stavamo entrando in un centro commerciale, dove lei doveva fare le ultime spese per il pranzo che si sarebbe tenuto il giorno dopo nel suo ristorante.
Pansé è una cuoca straordinaria.
Ovviamente, al suo posto io non mi sarei mai ridotto all’ultimo momento a fare acquisti, sapendo che una moltitudine di spendaccioni seriali progettava di fare altrettanto, intasando i negozi.
Andare a fare la spesa la Vigilia, per di più nel pomeriggio, è una cosa da folli, ma sono propenso a credere che l’universo femminile ragioni in modo diverso da quello maschile.
E non cominciamo a tirare fuori inopportuni, fuorvianti e manipolatori riferimenti al patriarcato.
Comunque, al cuor non si comanda per cui l’ho accompagnata.
Quando ho preso il carrello mi ha mostrato la lista degli acquisti da fare: avrei voluto svenire…
C’era di tutto.
Sarebbe stata sicuramente un’esperienza al limite del paranormale.
Giusto per prendere tempo di fronte all’inevitabile, le chiesi di entrare da sola al supermercato, perché io dovevo andare a fare pipì.
Non, non avevo problemi di prostata, la rassicurai.
L’avrei raggiunta subito.
Non era vero, non mi scappava affatto pipì, ma dieci minuti passati al cesso, più altri cinque per raggiungere il supermercato e almeno dieci per trovarla nella folla vociante tesa a svaligiare gli scaffali mi faceva guadagnare almeno 20 minuti di relativa tranquillità.
Non molti se li vogliamo paragonare all’eternità, ne convengo, ma notoriamente è la goccia che scava la roccia.
Comunque, giusto per fare il mio compitino, entrato nel WC sezione maschile ho aperto la porta ma da lì, quasi travolgendomi, è uscito un giovinastro che pareva avere il pepe… al culo.
«Ehi, che modi!», ho urlato irritato.
Nello stesso istante il mio sguardo inorridito si è posato sull’inguardabile: non sto a descrivervi quello che aveva lasciato nella tazza del WC l’impudente.
«Ehi, non si tira lo sciacquone?», ho esclamato, girandomi verso il generoso cacone pre-natalizio.
Parole al vento.
Il defecatore era già sparito.
Ovviamente, giusto per chiudere il cerchio, dopo avermi lasciato lì la madre di tutte le merde non si era nemmeno lavato le mani.
Io me le lavai senza fare pipì, ancora orripilato per quanto avevo visto e mi accinsi a raggiungere la mia bella Pansé con alcuni minuti di anticipo rispetto alla tabella di marcia che mi ero imposto, brontolando contro l’umanità.
All’interno del supermercato fui subito travolto da montagne di panettoni e pandori accalcati ovunque senza ritegno, da deliri di confezioni sbriluccicanti ogni dove, da gente schizzata che ti spingeva mentre correva a prendere qualsiasi cazzo di roba come se non ci fosse un domani per il loro futuro
alimentare.
Stavo per urlare, disperato, quando davanti al banco del pesce vidi Pansé.
Un miraggio.
La raggiunsi come un naufrago raggiunge un’isola dopo mesi passati in mare appeso a una trave mangiucchiata pericolosamente e velocemente dai tarli.
«Ah, sei qui…», fu il suo saluto.
Il tono era di quelli tipo “io lavoro e tu non fai un cazzo. Dove sei stato fino ad adesso?”
Non commentai e le spinsi il carrello.
Per fortuna aveva già preso quasi tutto, per cui la tortura finì poco dopo.
Beh, non subito dopo, in realtà, perché passammo i successivi 47 minuti alla cassa.
Una volta usciti dal supermercato e prima di lasciare il centro commerciale, distrutto dall’esperienza e senza più forze le proposi un aperitivo.
Annuì.
Andò lei a fare l’ordine, mentre io mi buttavo semidistrutto sulla sedia.
Il cameriere arrivò poco dopo, appoggiò il vassoio sul tavolino e rovesciò maldestramente le patatine.
Senza porsi grossi problemi, le prese dal vassoio con le mani e le rimise nel contenitore.
Alzai lo sguardo indignato per protestare e rimasi a bocca aperta: era il giovinastro che, dopo aver cagato impunemente senza preoccuparsi di tirare l’acqua, se n’era andato senza lavarsi le mani.
E adesso aveva rimesso le MIE patatine nella ciotola con le SUE mani lerce di Escherichia coli!
Non ce la feci a trattenere la rabbia repressa: presi il mio spritz Aperol e glielo gettai in faccia.
Fetta d’arancia e cubetti di ghiaccio compresi.
Meglio non descrivervi il parapiglia che seguì.
Dovetti fare una cosa che non faccio mai: esibii il mio tesserino da poliziotto e chiesi subito i documenti all’idiota con il tono di voce più minaccioso che mi riuscì di fare.
Il verme sbiancò e cominciò tremante a balbettare scuse su scuse.
Probabilmente aveva qualche canna o qualche pastiglia colorata in tasca e temeva lo scoprissi.
Mi trattenni, presi Pansé sottobraccio e me ne andai.
Lei era inviperita.
«Abbiamo fatto una figura di merda!», esclamò.
Sorrisi.
«Mia adorata, non sai quanto sei vicino alla verità, con le tue parole», le dissi.
Mi fulminò con un’occhiata.
Non ci parlammo fino a quando la lasciai davanti al suo ristorante.
Si stava facendo sera.
Quando le chiesi come rimanevamo d’accordo, non mi rispose e si allontanò verso il locale.
«Cazzo cazzo cazzo cazzo cazzo!», esclamai.
Parcheggiai la macchina e mi avviai verso una panchina nel parco.
Era l’unica sotto un lampione.
Seduto sopra c’era uno di quegli uomini vestiti da Babbo Natale che lavorano nei negozi alla vigilia.
«Posso?», chiesi gentilmente.
Lui acconsentì con un gesto della mano, gettando a terra la cenere del sigaro che stava fumando.
«Giornata difficile, oggi, immagino…», continuai, giusto per fare un po’ di conversazione.
«Non me lo dica. E stasera sarà peggio. E lei?»
«Guardi, dopo essermi fatto mandare a cagare dalla mia ragazza, direi che è stata una giornata di merda».
«Eh, capita…»
«Mi creda, odio tutta questa gente che s’appresta a festeggiare il Natale, non se ne può più! Corrono, spendono, s’ingozzano, fanno finta di volere bene al mondo intero e intanto, cosa succede? Nel mondo c’è gente che muore di fame, gente che muore perché ha la guerra in casa, gente che muore perché
qualcuno ha deciso che va bene così… E noi facciamo finta di niente! Cosa vuole, non reggo più tutto questo».
«La capisco, a volte anch’io mi pongo questi quesiti esistenziali».
«E lei, come fa a sopravvivere? Immagino non sia piacevole girare vestito come un pagliaccio per stare dietro a quei ragazzini petulanti che le tirano la barba e che pretendono tutto».
L’uomo mi fissò, con uno strano sguardo.
«Certo, non è facile, ma a volte bisogna anche vedere il bello e il buono, nelle persone e nelle situazioni che si vivono».
«Vuole dirmi che ce la fa davvero?», chiesi incredulo.
«A dispetto di tutto e soprattutto di quello che crede lei… Sì, ce la faccio».
«Mi creda, lei è un illuso, mio caro. Un illuso fortunato, probabilmente.
Comunque, rispetto il suo pensiero e le sue aspettative. Sognare aiuta a vivere, dicono».
«Non è che aiuti. Sognare e sperare che il mondo migliori è lo stimolo indispensabile che deve aiutarci ad andare avanti».
«Mah… Continuo a non essere d’accordo».
«Lei è libero di pensare quello che vuole, esiste il libero arbitrio. Ora però devo andare, è quasi mezzanotte e ho ancora molte consegne da fare».
«Immagino, i negozi stanno chiudendo e lei è pagato per fare Babbo Natale.
Vuole che le dia un passaggio?»
«No grazie, ho parcheggiato giusto qui dietro».
«Buon lavoro, allora. E buon Natale, visto che lei ci crede».
Mi sorrise e si mise il cappello vermiglio in testa.
«Buon Natale anche a lei, è stato un piacere parlarle, Adalberto Maria».
Rimasi a bocca aperta: non gli avevo detto il mio nome.
Dopo un attimo di rimescolamento mentale feci per corrergli dietro e avere informazioni in merito, quando da dietro la casa dove aveva appena girato l’angolo vidi volare verso il cielo una slitta trainata da otto renne.
E a guidarla era lui, l’uomo con cui avevo parlato fino a pochi minuti prima.
Oh oh oh!, mi parve di sentire.
Perplesso, mi rimisi a sedere sulla panchina.
Tornai a casa a piedi, avevo bisogno di riflettere.
Avrei ripreso la macchina il giorno dopo.
Ecco, questo è stato il mio Natale scorso.
Cosa mi aspetterà quest’anno?
Non lo so.
Magari ci risentiamo tra una settimana, per raccontarci com’è andata, cosa ne dite?